Nella vita c'è sempre qualcosa da fare!

L’unica domanda che gli porgo è: "Che razza di madre avranno i miei figli?". E lui, pronto, mi risponde: "Avranno una madre!".

Difficile mettere nero su bianco la propria storia, c’è anche il rischio che non importi a nessuno ma forse può far bene proprio a me. Da dove comincio? Dal luglio del 1999, quando credevo che la mia vita fosse già, difficile per dover affrontare una separazione con 3 figli minori, portavo avanti il lavoro e molti i gravosi impegni che comporta la gestione di una casa. Ero stanca, ma mi ero ripresa la dignità di donna oltre che di madre e questo era l’importante.

Con questi bei propositi durante l’estate del 2000 decido di affrontare anche un viaggio in Calabria, al mare, avevo proprio bisogno di puntare sulla mia autonomia e dare ai miei figli la sensazione che ce la potevamo fare. E così parto, spingo l’acceleratore e parto. Ma durante il viaggio comincio ad accusare un dolore persistente alla gamba destra. Tipico di una sciatalgia, ma diverso. Devo fermarmi spesso per riposare, con me c’è mio fratello ma lui non guida e in Calabria dovevo arrivarci. Finalmente giungo a destinazione, tutto sembra procedere tranquillamente, 10 giorni da favola, ma poi si rientra e durante il viaggio di ritorno la mia gamba comincia nuovamente a fare male e di certo la posizione di guida non aiuta. Finalmente Roma!

Rientro al lavoro ma i dolori aumentano e nessun tipo di antidolorifico li attenua. Comincio ad avvertire anche strani bruciori in zona pelvica. Allora vado dal ginecologo che in sede di visita si accerta che tutto fosse nella norma, tranne il fatto che percepiva una sorta di “indurimento” che spingeva l’utero. A questo punto anche il Medico di Base si allarma. Prescrive prima una lastra al bacino che non evidenzia assolutamente nulla, in seguito una Risonanza Magnetica. Quando l’esame finisce, noto lo sconcerto di medici e tecnici. Uno di loro mi dice che doveva parlarmi ed io, tentando di darmi coraggio, ironicamente pronuncio: "Mica avro’ un tumore!?" E invece il loro: "purtroppo si!!!" rimbomba nella mia testa così forte che riesco a vedere una sola cosa: la mia fine!! La paura e il panico mi fanno correre come una ragazzina in tutto l’ambulatorio di radiologia, come se volessi scappare da tutto questo, ma molto presto mi sarei resa conto che stava capitando proprio a me e che avrei dovuto affrontare l’impensabile.

Cominciano i primi accertamenti al S. Eugenio di Roma: TAC, markers, biopsie, scintigrafie e praticamente si arriva al 18 dicembre 2000. Siamo di fronte a una enorme massa tumorale che parte dall’osso sacro, ingloba il nervo sciatico, spinge l’utero, il retto, si inerpica sulla colonna e i medici del S. Eugenio si trovano davanti a qualcosa a cui non sono preparati. L’eccellenza è l’Ortopedia Oncologica del Rizzoli di Bologna. (partire? Lasciare i miei figli? Ma stiamo scherzando? Eppure non c’è scelta viene fissato il ricovero per l’8 gennaio 2001).

Salendo le scale del Rizzoli sento pianto di bambini. Il mio cuore si stringe e piango, salgo le scale e piango e non so se piango per loro o per quella giovane donna (io) che è lontana dai suoi figli e che si sente terribilmente smarrita. Mi ricoverano e mi parlano del tipo di intervento, assolutamente di tipo demolitivo e che per affrontarlo ho bisogno di tante sacche di sangue. Torno a Bologna per l’intervento, fissato il 15 febbraio 2001. La sera prima entra il prof. Biagini nella mi a stanza. "Io e lei dobbiamo parlare" mi dice, ma io vigliaccamente non volevo sentire niente. E così gli rispondo: "Io invece non voglio parlare con Lei, ho firmato il foglio di autorizzazione all’intervento, non basta??" E invece no, lui mi spiega che durante l’intervento potevo morire o che avrebbero dovuto amputarmi l’intero arto, oppure resezionare tutto il bacino destro. Parole che non capivo o che non volevo capire, ma sono madre e l’unica domanda che gli porgo è: "Che razza di madre avranno i miei figli?" e lui, pronto, mi risponde: "Avranno una madre!" Stranamente questa risposta però mi convince e così mi affido a Loro (Dio e Prof. Biagini). Ma la sensazione è quella di un condannato a morte. In genere si sa quando si nasce ma non quando si muore e così, per non sbagliare, sul calendario del 2001 segno il 15 febbraio con un grosso punto interrogativo. La mattina presto arriva a prendermi in stanza il portantino per condurmi in sala operatoria. Avrei dovuto essere agitatissima, invece inspiegabilmente, o forse stanca di provare l’ansia che mi accompagnava oramai da mesi, chiudo gli occhi e mentre l’anestesista mi preparava per l’intervento, io mi abbandono all’immagine di Cristo che mi prendeva in braccio. Niente, oramai, era più in mio potere.

A questo punto dovrebbe continuare il racconto il prof. Biagini perché solo lui sa ciò che è avvenuto in 14 ore di intervento chirurgico! Di certo, a detta dei miei parenti, esce dalla sala operatoria tutto sudato, ma comunica loro che era riuscito ad asportare integralmente il tumore e che questa era una bella notizia perché il rischio di eventuali metastasi era ridotta al minimo.

Resto una settimana in terapia intensiva della quale ricordo solo il mio avvicinare la mano alla gamba destra e gioire nello scoprire che ancora c’era. Rientro in sala operatoria il 23 febbraio per la ricostruzione ossea (si fa per dire: innesti ossei e in titanio, viti a non finire). Altre dieci ore di intervento chirurgico e un’altra settimana di terapia intensiva.

Rientro in reparto completamente allettata, impossibilitata a muovermi, impossibilitata a fare qualsiasi cosa. Per riassumere tutto ciò che provavo a livello fisico ed emotivo mi viene in mente il titolo di un libro: "Se questo è un uomo" di Primo Levi, ma è sorprendente la capacità di noi umani di adattarci alle svariate situazioni, per cui una volta capito che ero viva e che la gamba ancora c’era, nella mia testa c’era solo il desiderio di ricominciare. Ma finisce qui? Assolutamente no! Tre mesi di ricovero in cui una volta a settimana ero riportata in sala operatoria per pulizie chirurgiche della ferita a livello profondo per evitare che le protesi si infettassero e dovessero essere rimosse. Tre mesi di ricovero in cui non ci fu solo dolore. Ho pianto, riso, socializzato, vissuto rapporti umani che lasciano il segno.

Cosí, quando il 13 maggio il prof. Biagini mi consentí di rientrare a casa per un po’, tornare mi faceva paura. Paura di non avere più i punti di riferimento dell’ospedale, paura di non saper affrontare la mia vita: quale? C’era solo il desiderio di riabbracciare forte forte i miei figli, ma non avevo calcolato che, per loro, rivedere la propria madre in carrozzina, con un busto rigido, tutore per la gamba e catetere (per il quale Luca, il più piccolo, che allora aveva 2 anni nutriva un profondo timore) sarebbe stato devastante! Cosa gli era rimasto della propria madre? Cosa di quella donna forte e combattiva? Non osavo immaginare i loro pensieri, perché intuivo che la sensazione di smarrimento sarebbe stata atroce! Ma questo mi diede forza. Ricordandomi le parole di Biagini prima dell’intervento ("Avranno una madre...") io volevo a tutti i costi ridargli, anche se in maniera diversa, una madre fortissima. A luglio devo tornare al Rizzoli di Bologna perché la ferita si reinfetta. Altro mese di ricovero, altre 2 pulizie chirurgiche e poi di nuovo a Roma sperando di potermi dedicare alla riabilitazione. Ma così non fu perché dopo 9 mesi, proprio quando devo iniziare il primo trattamento riabilitativo all´Istituto Santa Lucia, l’infezione riappare. Torno per l’ennesima volta a Bologna dove non affronto solo un intervento di pulizia chirurgica, ma anche la rimozione di un mezzo di sintesi che nel frattempo si era rotto.

Quando rientro a Roma posso finalmente dedicarmi al recupero. Comincio riabilitazione al Santa Lucia, piscina e palestra tutti i giorni e dopo un anno "corro" con le stampelle, ricomincio a guidare, ritorno al lavoro, riprendo in mano la mia difficile vita ma tutto ha un senso!! Assisto alla comunione di mio figlio Andrea, assisto al matrimonio di mio figlio Stefano, divento nonna, assisto alle recite di asilo del più piccolo Luca, vado al mare, faccio i bagni, prendo il sole, faccio la spesa, suono la chitarra, canto, scrivo, cucino... E fino a quel momento io, che soffrivo per non poter più ballare o fare lunghe passeggiate, non poter più andare al mare a mostrare il mio corpo perché sfigurato dalle tante cicatrici, finalmente capisco che la mia vita aveva un valore e che la vita stessa offriva tantissime opportunità. Dovevo solo porre la mia attenzione su quello che potevo ancora fare, non su quello che non potevo più fare! Ed era vero!!

Nel 2006 scopro che esiste a Roma un'Accademia che offre percorsi artistici così mi iscrivo ad un provino per un corso di doppiaggio e lo passo, esperienza meravigliosa e in seguito comincio anche un corso teatrale e mi ritrovo all'Olimpico di Roma davanti ad una platea colma di gente e recito con un desiderio di essere al mondo e con una felicità che forse non avevo mai conosciuto prima! E infine non mi faccio mancare neppure un corso come speaker radiofonico. Non sono diventata né doppiatrice, né attrice e neppure speaker radiofonico, ma ho scoperto che se non sei tu a compiangerti neanche gli altri lo fanno. Non è questione di disabilità, è questione di carattere, di pensieri positivi, di atteggiamenti alla vita che è unica e merita di essere vissuta!!

Questi anni definiti di recupero sono stati intervallati da ulteriori interventi chirurgici di pulizie, tiroidectomia e isterectomia, ma oramai sono diventata un’ospite gradita del Regina Elena di Roma, dove poi il mio "amato" Biagini dirige dal 2005 il Reparto di Ortopedia Oncologica.

A distanza di 13 anni dall’esordio della malattia ho sentito il forte bisogno di raccontarmi e trasmettere, testimoniando, il messaggio forte e chiaro che periodi di malattia e di "calvario" sono passeggeri rispetto ad una vita che può e deve essere vissuta e della quale soltanto noi possiamo essere gli artefici. Ecco perché per ogni attimo di vita, sia bello che brutto, vissuto dal quel 15 febbraio 2001 fino ad oggi, mi è davvero impossibile non poter ringraziare il Prof. Biagini, e non soltanto perché da ottimo chirurgo mi ha salvato la vita, ma per come lo ha fatto; di certo non posso non poter ringraziare Dio, che è stato complice di Biagini, gli amici (quelli veri, quelli che non sono scappati dopo la malattia), gli infermieri, i fisioterapisti che si sono dedicati professionalità; ringrazio tutti coloro che con parole, opere o missioni hanno avuto e che hanno ancora un ruolo importante nel mio cuore e nella mia vita e, non per ultimo, ringrazio la mia famiglia! Senza il supporto pratico e affettivo della mia famiglia, mi sarebbe stato impossibile quasi tutto.

E’ dura, sono consapevole che affrontare questa malattia non è uno scherzo, ma essere in una brutta parentesi non sempre significa la parola fine! Io ora lo so, e anche se può sembrare assurdo, a volte la malattia rappresenta una nuova opportunità e che opportunità!

Nicoletta