Il caso non esiste

Come in tutte le storie di finzione il finale può essere bello o brutto, ma in entrambi i casi lo decide l’autore. Nella vita non è proprio così: anche se possiamo decidere un percorso,

prendere una strada invece di un’altra, tentare di evitare gli ostacoli, a volte, dobbiamo accettare quello che la vita ci riserva, anche le fermate obbligate che bloccano il cammino.

Il mio scoglio da superare arriva nel 2007, precisamente il 19 aprile. Di ritorno da una breve vacanza a Venezia, mi sottopongo ad un’ecografia, programmata da un po’ di tempo, alla coscia destra, dove avevo una cosa strana a forma di nocciola.

È in quel momento che scopro che qualcosa non va. L’ecografo, dopo aver concluso l’esame, mi consiglia di approfondire in fretta la cosa. Gli dico: "Mi sta dicendo che potrebbe essere un tumore?". Mi risponde di approfondire e di tenerlo informato (non l’ho fatto e ancora oggi me ne dispiaccio, avrei voluto ringraziarlo). Con il medico di famiglia decidiamo il da farsi e comincia, così, il mio cammino nell’accertare la natura della patologia. Approfondimenti clinici, risonanza magnetica con contrasto, visita chirurgica e poi ortopedica infine la diagnosi: "Sì, potrebbe essere un tumore".

Potete immaginare come ad un tratto la vita cambi: cominci a pensare alle cose più brutte, anche alla morte. È naturale: si nasce, si vive e si muore, ma a 39 anni, quanti ne avevo io allora, con una giovane moglie e due bambini, non è semplice da accettare. È a loro che è andato subito il mio primo pensiero, ai miei figli, Lorenzo e Leonardo. Pensavo se fosse capitato il peggio, loro non si sarebbero neppure ricordati di me. Ma comunque meglio che sia capitato a me che a mia moglie. Loro, i miei figli, non avrebbero potuto fare a meno della mamma.

All’ospedale San Camillo di Roma mi visita un ortopedico che decide di ricoverarmi per asportare tutto il tumore. Mi manda al reparto, dal primario di ortopedia. Mi sembra, anzi ne sono sicuro, si chiamasse Pallotta. Mi guarda, legge i referti, mi chiede l’età e dice: «Ascolta, hai 39 anni, io asporto il tutto senza nessun problema, ma vai al Regina Elena, lì con i vetrini sono i più bravi».

Ed ecco che mi ritrovo all’Istituto Regina Elena. Mi accoglie il dottor Prencipe, poi il prof. Biagini, il primario, colui a cui io metterò in mano la mia vita.

In questo periodo non mi sento bene psicologicamente. Mia moglie è la persona cui io mi aggrappo maggiormente. Lei non ha un dubbio, non un pensiero negativo, sicura che ne usciremo senza problemi, ha piena fiducia nei medici. Ma anche lei, l'ho capito dopo, ha sofferto, in silenzio, da sola, senza farsene accorgere per non incrementare la mia ansia.

Come si dice: dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna. Beh, io non sono un grande uomo, ma mia moglie, sicuramente, è una gran donna. In questi momenti ci sono tante persone che ti amano e che soffrono, in maniera differente, insieme a te: i parenti, gli amici, chi più chi meno; cercano di starti vicino e di aiutarti come possono. All’inizio tu non te ne rendi conto, credo si diventi egoisti in queste circostanze, ma poi man mano che passa il tempo capisci che sono un supporto e aiuto importantissimo.

Altri esami, approfondimenti, ago-biopsia per capire di che cosa si tratti veramente.

Benigno o maligno? Passano i giorni e aspetto con ansia la risposta. Parrebbe benigno. Ora manca solo il responso finale dei medici. Quel giorno dentro lo studio del professor Biagini sono abbastanza teso. Dopo aver ricapitolato tutto, il dottore sentenzia che vuole intervenire lo stesso, meglio togliere il tumore. Mi fa vedere una lista. Tanti nomi, il mio sarà inserito all’ultima riga. Siamo alla metà di maggio. Torno a casa con qualche certezza in più. Anche se fosse qualcosa di diverso, se ne può uscire. Passano due mesi. Nel frattempo mi sono veramente rilassato. Penso che tutto andrà per il meglio.

Sono in vacanza al mare. Un pomeriggio, è mercoledì, mi arriva una telefonata. È il Regina Elena. Dall’altra parte del telefono il dott. Favale mi chiede se sono disponibile a ricoverarmi il sabato seguente. Vado nel pallone, non so per quale motivo, dovrei essere contento, un paziente ha rinunciato e io fortunatamente sono diventato il primo della lista. Lo ringrazio gli dico di sì, ma gli passo mia moglie, sono troppo nervoso e non riesco a capire nulla. Il 14 luglio sono in ospedale, è sabato. Mi mettono in stanza con un ragazzo di 25 anni già operato. È lì che comincia il mio rapporto con altre persone che vivono la realtà di una malattia del genere. Man mano che prendo contatto con gli altri degenti, mi convinco lentamente che io sono fortunato, solo ad ascoltare alcune delle loro storie me ne convinco ancora di più. E poi ho mia moglie e i miei figli sono la mia vita e non posso deluderli. Devo assolutamente trovare la forza di lottare per evitare un ostacolo che mi costringe a cambiare strada nel proseguimento della mia esistenza.

Arriva il giorno dell’intervento. Sono il primo, anzi no, stavolta divento l’ultimo. Arrivati in sala operatoria l’anestesista m’inietta il liquido per farmi addormentare.

Ecco gli anestesisti, in questi momenti sono loro che tengono uniti i fili della nostra vita, sono loro gli angeli custodi che si occupano di noi, ma non ho sentito mai nessuno ringraziarli abbastanza. Io lo farò in seguito con una lettera. Ricordo un giramento di testa e un dottore che comincia a fare qualche foto. Mi risveglio qualche ora dopo. Mi dicono: "Tutto a posto, l’intervento è andato bene, dobbiamo aspettare l’esame istologico".

Caratterialmente sono un apprensivo. Mi sono sempre preoccupato per gli altri, non avrei mai messo in conto che poteva succedere anche a me. Vivo il periodo di attesa teso, ma ottimista. Torno al mio paese, la gente mi vede con le stampelle e mi domanda: cos’è successo? Che ti sei rotto? Non sa che non sempre ci si rompe qualcosa quando si portano le stampelle. Io l’ho imparato a mie spese. Una mattina, erano i primi di agosto, mi chiamano dall’ospedale. Mi informano che l’esito era un po’ diverso dall’esame dell’ago-biopsia: il tumore è maligno, poco aggressivo, bassa gravità. Comunque per me è un colpo che non mi aspettavo. Vado di persona a ritirare il referto. Il dottor Prencipe mi visita mi dice che è tutto a posto che non ci sono altri problemi. Forse potrebbe essere il caso di fare un ciclo di radio. Dopo vari consulti, devo prendere io la decisione: inizio la radio. Durerà una quarantina di giorni, altra occasione per conoscere altri pazienti. Nascono delle amicizie, seppur limitate all'interno di quelle stanze, con chi ti segue: Flavio, che ogni giorno si occupa di te; Cinzia, una mia amica, che accompagna sua mamma a fare la terapia.

È Marzo 2008: finalmente il mio percorso di cure si è concluso e ora dovrò solo fare i controlli. Una nuova sensazione mi pervade. Non una tranquillità pura, ma sento ormai che il peggio è passato ora bisogna ricominciare a "Vivere". Psicologicamente non è facile. I miei amori hanno svegliato in me una forza inimmaginabile. So perfettamente che la mia esperienza non è nulla in mezzo ad un mare di persone che si sono ammalate, ma in quel mare ce ne sono tante che sono guarite. Questa storia come tutte le altre che avete letto e leggerete in questo libro ne sono la testimonianza.

A distanza di quattro anni va tutto per il meglio. Amo mia moglie e i miei figli, vivo serenamente ogni giorno come se fosse il primo giorno della mia vita. Ho ripreso anche a fare sport, gioco a calcio. Il mio nuovo percorso di vita si è incrociato e arricchito con la conoscenza di nuove persone e nuovi obiettivi da raggiungere. Ogni nuova conoscenza fatta mi accresce e mi completa, soprattutto quelle di chi, attraverso la mia stessa esperienza, capisce e condivide le ansie, le paure, le gioie e la consapevolezza che vi è stato solo un ostacolo che si può superare. Chissà quante volte ci siamo sentiti dire, quando ci succedeva qualcosa: " E' un caso". Ma voglio usare le parole di un personaggio di un cartone animato, visto con i miei figli: "Il caso non esiste". Credetemi, ne sono convinto: tutto quello che ci succede, anche la malattia, ha un senso, non so quale ma ha un senso.

 

Francesco

 



 

Mia moglie nemmeno un dubbio, mai un pensiero negativo.

Ho capito poi quanto ha sofferto in silenzio.