Che abbia senso o no trova un motivo per amare la vita

Con la malattia è come se io avessi messo in pausa la mia vita di tutti i giorni e ne avessi iniziata una nuova, in un luogo diverso e con tanti nuovi amici.

Certe realtà sono così distanti da noi tanto da non riuscire a comprenderle, forse neanche a immaginarle, ma sono più vicine di quanto noi possiamo credere. Riusciamo a rendercene conto solo quando ci toccano davvero da vicino, solo allora sappiamo guardare il mondo intorno a noi con occhi diversi e scoprire ciò che ci circonda. Nel mio percorso nella malattia ho capito che parlare e confrontarsi con altre persone che hanno seguito il tuo stesso cammino, è di grande aiuto e conforto e se io posso esserlo per te, mi fa molto piacere.

Prima di iniziare ti voglio invitare a ricordare sempre quanto sia bella la tua vita, pur con tutte le sue difficoltà, non dimenticare mai di amarla perché ci sarà sempre un motivo per il quale bisogna viverla ed è proprio quel motivo che deve spingerti ad andare avanti. Per me è stata di grande aiuto innanzitutto la mia famiglia e in particolar modo mia madre e mia sorella, alle quali devo molto. Ma hanno contato molto anche la voglia di voler fare ancora tante cose nella vita, e poi gli amici, quelli veri, che non mi hanno mai lasciata sola. Io non ho permesso a questa brutta malattia di vincere, anche se avevo tanta paura ho lottato con tutte le mie forze, sempre con il sorriso sulle labbra e una gran pace nel cuore, quasi innaturale, ma della quale il Signore mi ha voluto fare dono. Ci sono stati dei momenti in cui inevitabilmente crollavo, ero stanca ma mi dicevo che dovevo stringere i denti e continuare a lottare per me ma soprattutto per la mia famiglia, ero io a fare coraggio a loro.

Fatta questa premessa, posso cominciare a raccontarti la mia storia. Mi chiamo Maria e oggi ho 25 anni, ma quando tutto è cominciato ne avevo 21. Ho avvertito i primi dolori alla gamba sinistra, inizialmente erano solo dei fastidi ma con il passare del tempo il dolore cominciava a essere insopportabile. Durante il giorno riuscivo a tollerarlo, ma la notte assolutamente no, era diventata un incubo, non riuscivo più a dormire. L’ortopedico che mi prese in cura sbagliò la diagnosi, mi curava per una lombosciatalgia e così quando finalmente arrivai dal prof. Biagini era passato ormai troppo tempo: se fossi arrivata prima probabilmente la mia storia sarebbe stata diversa. Ho un ricordo perfettamente nitido dei giorni e degli eventi precedenti al mio ricovero. Quanta tensione nell’aspettare il referto della risonanza, che sembrava non arrivare mai. Fu mia madre che lo andò a ritirare ed io rimasi ad aspettarla a casa con mia sorella e con i parenti, ma non appena vidi che tardava a tornare capì che qualcosa non andava. Forse, inconsciamente, già avevo capito da qualche tempo ma in quel momento quella possibilità si stava concretizzando ed io piangevo, avevo paura di non riuscire a lottare, avevo paura di lasciare la mia famiglia, però ricordo con immenso affetto mio cugino che si sedette accanto a me, mi prese la mano e mi abbracciò. Nel referto della risonanza indicavano la presenza di una massa e m’invitavano a fare una biopsia. Non sapevamo dove andare, a chi rivolgerci e in quei momenti non sei neanche così lucido da poter prendere una decisione. Abbiamo chiesto aiuto a un amico di famiglia, medico, il quale mi ha consigliato di rivolgermi al prof Biagini. Io abito in Sicilia e così assieme a mia madre e mia zia siamo partite per Roma. La mattina prima della mia partenza, dopo una nottata insonne, ero terribilmente confusa, stavo lì nella mia camera a guardare mia sorella e le mie cugine che correvano da una parte all’altra per preparare i bagagli ed io non riuscivo a fare niente. Il primo ricovero nel reparto di ortopedia oncologica dell’ospedale Regina Elena avvenne l’8 giugno 2011. Quella mattina avevo un appuntamento con il primario. Appena entrata in reparto vidi nel corridoio un infermiere che parlava con un signore alto dai foti baffi. Io non potevo sapere che proprio quel signore era il prof. Biagini e così mi rivolsi all’infermiere e gli chiesi dove avrei potuto trovare il primario, subito il prof mi rispose "Eccomi, ti stavo aspettando! Guardò la mia risonanza, mi prese sotto braccio e mentre mi accompagnava dagli infermieri per farmi ricoverare mi disse "Spero di farti simpatia, purtroppo noi dobbiamo passare molto tempo insieme ma prima dobbiamo dare un nome e un cognome a questo inquilino". Io rimasi attonita, ma le parole del prof cominciarono a risuonare nella mia testa così capii di essere nel posto giusto e da quel momento in poi riposi un’immensa fiducia e stima in quell’uomo al quale so di dovere molto. Naturalmente sono grata a tutta l’equipe di medici che con lui collaborano, tutti si sono sempre prodigati per farmi superare al meglio la malattia e per farmi guarire prontamente in modo da poter ritornare al più presto ai miei affetti più cari.

Fu il dott. Zoccali a eseguire la biopsia e a riferirmi l’esito dell’esame, si trattava di un "osteosarcoma condroblastico di grado 3" che aveva colpito l’emibacino sinistro, dovevamo intervenire subito con la chemioterapia, il tumore aveva un diametro di circa 15 cm. Ero nella mia stanza quando venne, si sedette di fronte a me e disse cosa avrei dovuto fare ed io inevitabilmente cominciai a piangere. Sono convinta che piangere faccia bene, è un modo per sfogarsi ma dopo è importante asciugare le lacrime e cominciare la battaglia. Io ho sempre voluto sapere tutto sia dagli ortopedici che dall’oncologa, non volevo che nulla mi fosse nascosto, io dovevo sapere quale sarebbe stato il percorso che avrei dovuto seguire con tutto ciò che avrebbe comportato. Credo che sia importante sapere perché se sai cosa ti aspetta saprai anche come affrontarlo.

Ricordo che il giorno del mio primo ricovero per iniziare la chemio nel reparto di oncologia, prima di varcare la soglia, guardai la porta d’ingresso del reparto e provai una grandissima paura, un senso di vuoto e solitudine. Però mi consolava sapere che lì ad aspettarmi c’era Valentina, avevamo cominciato insieme il nostro percorso, prima in ortopedia e poi in oncologia. Quando sei in ospedale il tempo non passa mai e hai bisogno di occupare tutti i momenti che hai a disposizione. Con Valentina facevamo progetti sulle vacanze che avremmo fatto non appena guarite, ci sfidavamo con la settimana enigmistica, scherzavamo, quando era possibile, nel cortile dell’ospedale facevamo anche le gare con la carrozzina e soprattutto riuscivamo a comprenderci e ad aiutarci nei momenti più difficili. Valentina è sempre con me ed io custodisco il ricordo dei momenti passati insieme nel mio cuore. Con la malattia è come se io avessi messo in pausa la mia vita di tutti i giorni e ne avessi iniziata una nuova, in un luogo diverso e con tanti nuovi amici. A questi amici sono legati i ricordi più belli di quel periodo, anche se può sembrare paradossale, insieme non si faceva nulla di particolare, però era straordinario come si riuscisse a stare insieme, chiacchierare, scherzare e a volte dimenticarsi anche il motivo per cui eravamo lì. Sono nate delle grandi amicizie che resteranno nel tempo, anche se ci separano chilometri, se non ci si sente spesso, ma quando ci incontriamo o sentiamo è sempre una gioia.

Al termine di ogni ciclo però si ritornava a casa da mia sorella, dai miei affetti…era un continuo viavai: andavo a Roma per fare la chemio e poi tornavo di nuovo a casa, dove restavo per circa 15 giorni e poi di nuovo in ospedale. Il programma del prof Biagini e della dottoressa Ferraresi era di farmi completare prima tutti i cicli di chemioterapia. Ma così non è stato. Ho fatto solo 8 cicli di chemio e a dicembre 2011, dopo aver ripetuto i controlli di routine e dopo aver visto che la malattia si era di nuovo "svegliata", il prof Biagini ha deciso che era il momento di intervenire chirurgicamente. Ricordo con precisione che mentre ero ricoverata in oncologia una mattina entra nella mia stanza e comincia ad accennarmi qualcosa sull’intervento. Poi mentre stava per andare via, lo fermo e gli dico che devo ancora fargli una domanda, volevo saper se era "contemplata la possibilità" di dover amputare la gamba. Il prof capì subito quello che volevo chiedergli e non mi fece neanche completare la frase, senza guardarmi in faccia mentre usciva dalla stanza, con la voce un po’ strozzata, mi disse "…si…". Neanche il prof in quel momento riusciva a parlarmi, andò via, mi lasciò il tempo di digerire la notizia e solo dopo qualche giorno ne parlammo insieme. Per me avere quella conferma fu devastante, cominciai a piangere e non sapevo come fermarmi, avevo paura, pensavo a tutto quello che non avrei più potuto fare e non riuscivo ad accettarlo, non riuscivo ad accettare la vita senza la mia gamba.

Ho subito due grandi interventi, molto lunghi e invasivi, più altri sette di pulizia delle ferite, il mio ricovero in ortopedia è durato otto lunghi e interminabili mesi. La sera precedente al mio primo intervento Biagini mi chiamò nel suo studio mi spiegò cosa avrebbero dovuto fare e le possibilità di riuscita. Quella notte non chiusi occhio, avevo paura di non riuscire a superare quell’intervento e di perdere tutto. Io mi sono completamente affidata al Signore, Lui mi ha dato una gran pace del cuore, riuscivo a percepire la Sua presenza e anche se avevo timore, inconsciamente sapevo che tutto sarebbe andato bene. Otto mesi lontano dalla famiglia, sempre chiusa in una stanza e sempre a letto, sono duri e difficili. Mia madre era sempre accanto a me e mia sorella veniva spesso a trovarmi, le giornate erano tutte uguali e sempre monotone, e senza il sostegno di tutti gli amici conosciuti in questo "viaggio" sarebbe stato ancora più difficile. Ci sono molti aneddoti che mi ricordano quel periodo, piccoli gesti che possono sembrare inutili, banali, ma che ti fanno capire quanto si è amati e pensati e ti danno lo stimolo per continuare a lottare. Quando finalmente tornai a casa, era l’agosto del 2012 ma prima di raggiungere questo traguardo ho faticato. Già da un po’ chiedevo insistentemente a Biagini di mandarmi a casa e il prof aveva compreso la mia stanchezza, ma era preoccupato per gli attacchi febbrili che ancora avevo, anche se era convinto che l’aria di casa avrebbe solamente giovato alla mia salute. Dopo aver fatto svariate indagini, un giorno abbiamo stretto un patto: se la TAC che avrei fatto nei giorni a seguire fosse stata negativa e se avessi trovato un valido chirurgo che mi avrebbe seguito una volta rientrata a casa sarei stata dimessa. Feci la TAC nel fine settimana. Lunedì mattina aspettavo con ansia l’arrivo del prof, anche se già i medici mi avevano avvisato che la TAC era negativa. Quando Biagini entrò nella mia stanza, io ero nel mio letto e guardavo fuori dalla finestra, non appena senti la porta aprirsi e il tintinnio dell’enorme mazzo di chiavi del prof, mi girai e lo guardai sorridendo e lui mi disse "Maria perché ridi?" ed io molto semplicemente gli risposi "Perché lei mi manda a casa?!" e mentre usciva dalla stanza, mi disse "…ti mando, ti mando…". Solo sentendo quelle parole ero felicissima, una gioia immensa, io mia sorella e mamma ci siamo abbracciate, non vedevo l’ora di tornare a casa, subito prenotammo il biglietto e il giorno dopo partimmo. Ero così felice di tornare a casa ma avevo anche paura: se fossi stata male, se la febbre si fosse alzata, a chi avrei chiesto aiuto? Dopo tutti quei mesi passati in ospedale, solo lì mi sentivo al sicuro perché sapevo che a qualunque ora del giorno o della notte, c’era sempre qualcuno pronto ad aiutarmi. Solo dopo che sono tornata a casa, pian piano, anche la febbre è andata via e la ferita si è chiusa. Ma la mia avventura non era ancora finita! In una TAC di controllo mi fu diagnosticata una metastasi polmonare, così a novembre fui ricoverata e nuovamente operata e poi seguirono altri cinque cicli di chemioterapia.

Subito dopo l’ultimo ciclo di chemioterapia sono partire per Budrio, per la mia prima protesi. Non credo dimenticherò mai il momento in cui ho cominciato a fare i miei primi goffi passi con la protesi, fuori dalle parallele. La sensazione di tornare di nuovo a camminare dopo molto tempo è qualcosa d’indescrivibile, è emozionante e in quei momenti sei assalita da sentimenti contrastanti, la paura di un’eventuale caduta ma anche e soprattutto tanta gioia. Dobbiamo darci il tempo di imparare a convivere con la nostra realtà, di conoscerla e di abituarci a essa e poi si potrà fare tutto, un passo alla volta, magari con i nostri tempi che inevitabilmente non coincideranno più con quelli degli altri, l’importante è ESSERCI, GODERE della propria vita, AMARLA e VIVERLA… nella vita presto o tardi che sia, arriva tutto quello che di buono il nostro cuore desidera. Prima che succedesse questo "incidente", io ero una persona molto attiva e tutti questi avvenimenti chiaramente hanno limitato la mia autonomia ed è anche questo il motivo per il quale io desideravo fare la protesi il prima possibile, riuscire a camminare di nuovo con le mie gambe avrebbe significato che io avrei riacquistato la mia indipendenza. È naturale che all’inizio non riuscivo a fare molto, mi stancavo subito e anche tenere Lucrezia (è così che ho chiamato la mia nuova gamba) tutto il giorno era davvero difficile, ma adesso, con il passare del tempo sto acquistando più sicurezza e riesco anche a fare molte più cose di quelle che riuscivo a fare i primi tempi. Cerco sempre di mettermi alla prova e a fare quello che sembra impossibile e quando ci riesco, anche se con un po’ di difficoltà, sono contenta del traguardo raggiunto, ma so che posso fare molto di più. Adesso sto bene e piano piano comincio a riprendere in mano le redini della mia vita, ho ripreso di nuovo a studiare e a frequentare l’università, ho intrapreso un’attività sportiva che mi piace, ho anche preso la patente ed è anche arrivata la mia macchina.

Riuscire ad accettare la mia nuova condizione non è stato facile, all’inizio si può comprendere che è una scelta obbligata ma non si riesce ad accettare, bisogna darsi del tempo per riuscire ad amarsi di nuovo. Oggi riesco a vedere tutto in maniera diversa, o quasi, se ogni tanto mi rattristo, penso che io ho avuto un’altra possibilità, che posso ancora godermi la mia famiglia, gli amici, la mia "nuova" vita e penso a chi ho conosciuto nel cammino della malattia e non e più con noi. L’ho promesso a Valentina che io avrei continuato a vivere per entrambe e ho mantenuto la promessa. La malattia mi ha privato di molte cose, ho perso anni di università, momenti di vita sia con la famiglia che con gli amici, che sono passati e io non potrò rivivere, però mi ha dato molte più possibilità rispetto a quanto mi abbia tolto: ho trovato negli infermieri, nei volontari, nei compagni di avventura e nei loro famigliari una nuova grande famiglia, ho scoperto di avere un umorismo che non conoscevo. Anche se mi manca una gamba sono capace di riderci su, di prendermi in giro da sola. Ho potuto conoscere i miei limiti e le mie possibilità. Ho capito di avere una forza che non pensavo di possedere. E poi ho anche scoperto un grande ingegno! È vero che certe cose non si possono fare, ma io non mi perdo di coraggio e trovo sempre un modo alternativo per farle, basta guardare la vita in una prospettiva diversa e continuare a viverla. Io amo il mare, mi piace e mi rilassa e desideravo fare una bella nuotata. Ma come fare? Adesso che non avevo più la mia gamba come avrei fatto? Potevo ancora andare a mare? E gli sguardi di tutte le persone li avrei accettati? Quante domande mi frullavano in testa, alle quali, e fin quando non avessi provato non avrei neanche potuto dare una risposta. Chiesi a mia madre di portarmi al mare, ma anche da parte sua c’era il timore di non sapere come fare. È una cosa normalissima, ma è importante non avere paura e aver voglia di sperimentare, di non temere gli sguardi degli altri, perché noi siamo speciali, le nostre cicatrici sono il segno delle esperienze passate e della nostra vittoria e dobbiamo sfoggiarle con orgoglio. Anche le persone che ci stanno intorno, le nostre famiglie, devono riuscire a superare i nostri limiti e darci la possibilità di andare oltre, anche se è difficile, anche se si ha paura. Il giorno che sono riuscita ad andare a mare ero la persona più felice sulla faccia della terra, anche se è stata un impresa! Arrivai in spiaggia con la protesi, poi aiutata da mia sorella e da alcuni amici, ho tolto la protesi mi sono seduta sulla battigia e poi sono scivolata giù in acqua. Raccontata così sembra una cosa molto semplice e invece non lo è. Le prime volte non sai come deve sederti per terra, non hai idea di quello che sai fare e sembra tutto più difficile di quanto in realtà non sia. Per questo ti esorto ancora a credere in te, nelle tue potenzialità, nella tua forza. Lotta e non arrenderti, non lasciarti sopraffare dalla malattia, tu sei più forte e puoi vincere, ricordalo sempre! Adesso è il momento di concludere, mi sono dilungata anche troppo e spero di non averti annoiato o soprattutto rattristito.

Prima di salutarti ti vorrei lasciare un pensiero…

..."nella vita per compiere grandi voli ci vogliono grandi ali,
occhi che guardano lontano e un cuore aperto
per comprendere tutto l’orizzonte"
disse il fenicottero alla gallina…

Un ringraziamento è per il prof e per Monica i quali mi hanno dato la possibilità di raccontarti la mia storia e un grazie davvero speciale è per tutti i medici e gli infermieri che si sono presi cura di me e a tutti i volontari che mi hanno sostenuta.

Con affetto, Maria