Da queste battaglie nasce un'altra persona

Amo godere di inebrianti sensazioni di libertà e di meraviglia. Era ciò che mi assicuravano le mie gambe forti e flessibili e di cui ero segretamente orgogliosa

Amo inerpicarmi per i sentieri di  montagna, giungere in vetta e spaziare con lo sguardo su panorami senza frontiere. Amo penetrare con  gli sci di fondo nel mondo intimo e silenzioso dei boschi innevati o arrampicarmi sugli scogli, per affacciarmi sugli strapiombi spumosi dove nidificano gli uccelli marini.  Godere di inebrianti sensazioni di libertà e di meraviglia era ciò che  mi assicuravano le mie gambe forti e flessibili e di cui ero segretamente orgogliosa. Per questo, per  oltre un anno, mi sono ostinata a non dar peso a un insistente dolore all’anca destra. Quando le fitte aumentavano, prendevo un antidolorifico e andavo avanti. Pensavo: “Ho 56 anni, sarà l'inizio di un'artrosi, non c’è da preoccuparsi”. Ma nel giugno 2008 il dolore ormai non mi lasciava più e finalmente decisi di fare una lastra. “La sua anca" mi disse subito la radiologa "non è affatto messa bene. L’artrosi è da escludere”. Poi, con delicatezza, mi chiese se avessi mai avuto una diagnosi di cancro. “Sì” risposi “ma è una cosa vecchia! Sono passati ventidue anni da quando mi hanno operata per un carcinoma mammario e sottoposta a chemio e radioterapia. Per dieci anni ho fatto scrupolosamente tutti i controlli periodici, finché mi hanno detto che ero guarita e che ormai sarebbe bastata una mammografia all’anno. No, non può essere…”. Mentre balbettavo queste parole rassicuranti, ormai un campanello trillava con insistenza nel mio cervello facendomi accelerare i battiti del cuore. “Senta" mi interruppe la dottoressa "non voglio allarmarla inutilmente, ma, visti i suoi precedenti, le consiglio di andare dal suo oncologo e di sottoporsi a ulteriori accertamenti ”.

Esco dal gabinetto radiografico con il caos in testa. Non ricordo più dove ho parcheggiato l’auto, non trovo le chiavi, cerco freneticamente gli occhiali che ho sul naso. Mi guardo intorno e non so che fare. Mi viene in mente che non ho più un oncologo: dopotutto perché dovrei, sono guarita! O no? Ero uscita a trentacinque anni dal carcinoma alla mammella con il seno sinistro dimezzato dalla quadrantectomia, uno scavo ascellare completo e, a causa della chemioterapia, in menopausa forzata: evento che mi aveva bruscamente precluso la possibilità di avere figli e gettato in una forte depressione. Ora ero costretta a rivivere sensazioni dolorose come in un incubo che si ripete. Tac, risonanza magnetica, scintigrafia ossea, marcatori tumorali: nella girandola di esami e di pareri di medici perplessi nessuno me lo dice apertamente, né io lo confesso a nessuno, neanche a me stessa, ma ormai ne prendo coscienza. Qualcosa di maligno si era di nuovo fatto largo nel mio corpo, mi aveva bucato il femore come una groviera e iniziato a rosicchiare l’osso iliaco. Ma questa volta, cos’era?

Il professor Roberto Biagini, a capo dell’Ortopedia oncologica dell’Ospedale Regina Elena di Roma, è un primario come uno non si aspetterebbe. Bastò una telefonata per essere ricevuti la mattina dopo in reparto. Capelli arruffati, occhi chiari trasparenti, accolse mia sorella Claudia e me dietro due baffoni sornioni. Studiò le lastre attentamente, mi visitò per poi esordire con un netto: “ Ssscignooora, al novanta per cento è una metastasi” pronunciato con quel suo strascicato accento romagnolo che ti strappa un sorriso anche quando ti sta comunicando cose tremende. “Ma dobbiamo esserne ssscicuri” continuò ”perciò deve fare subito una biopsia ossea. La mando a Modena perché sono bravi e veloci. Nel frattempo deve indossare un tutore e camminare con due stampelle, non deve caricare la gamba perché il rischio di frattura patologica è molto alto e in questo caso il tumore si può spargere!”. Mia sorella e io rimanemmo senza fiato. Il tutore si rivelò una sorta di armatura: una grossa e rigida cintura di plastica intorno alla vita, con un’asta snodabile e una specie di cilindro che si stringe intorno all’anca. Indossandolo, provavo la sensazione di apparire come una donna bionica e dovevo anche dormire imprigionata in quel marchingegno.

Nei giorni trascorsi in attesa del risultato della biopsia ho in bocca il sapore amaro e pungente della paura. Paura della cosa oscura che ho dentro, delle cose ignote cui vado incontro. Paura di soffrire, paura di morire. Sono sopraffatta da un sentimento di pena per me stessa, cupo e struggente, come quando si è costretti a dire addio per una partenza senza speranza di ritorno. A volte l’ansia diventa insopportabile e le lacrime affiorano senza controllo dai miei occhi. Altre volte mi aggrappo a quel dieci per cento di incertezza lasciato in sospeso da Biagini e riesco a deglutire senza sentire la gola bloccata. Claudia non mi lascia un minuto, mi abbraccia e mi dice:“Io so che ce la farai, qualunque cosa succederà l’affronteremo insieme e vinceremo noi!”. Mi intima di ripeterlo e io, ad alta voce: “So che ce la farò, vinceremo noi”. Le stringo forte la mano perché voglio crederci.

Dopo alcuni giorni l’esito della biopsia è sul tavolo di Biagini e, purtroppo, conferma la sua diagnosi: metastasi ossea da carcinoma mammario. Lui mi parla guardandomi dritto negli occhi: “Ssscignooora, mi stia bene a ssscentiiire: noi la malattia gliela cronicizziamo, sostituiremo il suo femore con una protesi di titanio. Ma lei zoppicherà vistosamente e porterà il bastone tutta la vita! Ha capito, ssscignooora? Ora la metto in lista per l’operazione!”. Ho capito, ho capito e piango senza ritegno. Mia sorella mi abbraccia, questa volta piange anche lei insieme a me.

Mi sentivo disperata e in rivolta contro la vita che mi stava aggredendo con tanta brutalità. Non potevo accettare di diventare zoppa. Avrei passato il resto degli anni a guardare la vita scorrere fuori dalla finestra, mentre avvizzivo avvinghiata al mio bastone, come i tralci secchi di una pianta che non germoglia più. La prospettiva di perdere la mia tanto amata libertà di movimento mi sembrava più devastante del cancro. “Una cosa è certa” dissi a Claudia uscendo dall’ospedale “io da quel Biagini non mi farò togliere neanche un’unghia incarnita!”. Mia sorella non fu dello stesso parere: “Peccato" ribatté “A me è piaciuto. E’ vero, è stato crudo, ma è andato dritto al punto. Considera che con la fisioterapia potrai migliorare, dipenderà anche dal tuo impegno. L’importante è che l’intervento sia eseguito bene e tu lo sai che il professor Biagini è considerato uno dei migliori specialisti nel suo campo. Secondo me, invece, è il medico giusto”.

Si, infatti, lo sapevo. Su Internet scoprii che proprio lui, dopo una lunga esperienza all’Istituto Rizzoli di Bologna, era stato il fondatore dell’ortopedia oncologica a Roma nel 2005. Prima di allora, per quanto assurdo possa sembrare, chi si ammalava di tumore osseo nella Capitale, se voleva avere una chance di salvarsi, era costretto a curarsi altrove. Tuttavia i due mesi in attesa dell’operazione al Regina Elena li dedicai a cercare un’alternativa al destino da invalida che mi aveva pronosticato. Inviai analisi e lastre del mio femore bucherellato ai più importanti ospedali e reparti oncologici italiani e persino a un istituto di Vienna. Il tutore stesso non costituì un ostacolo per spostarmi e farmi visitare a Firenze e a Bologna. Poi, però, tornavo da Biagini a riferirgli gli esiti delle mie scoperte “alternative”. Mi recavo in ospedale senza preavviso, tanto ero sicura di trovarlo sempre lì. Lo bloccavo lungo il corridoio del reparto, aggrappata alle due stampelle e intrappolata nel tutore. Lui mi ascoltava con pazienza, a braccia conserte, poi rispondeva senza scomporsi: la cemento-plastica? Nel suo caso è una casssciata! Innesto osseo? Altra casssciata! E mi spiegava perché. Ma io non voglio zoppicare, non voglio diventare invalida, ribadivo quasi implorando! Finché un giorno mi disse, in modo gentile ma fermo, con lo sguardo dritto piantato nei miei occhi: “Ssscignooora, forse lei non l’ha ancora capito che qui tratta di portare a casa la pelle!”.

Fu uno shock che mi costrinse a guardare in faccia la realtà. La malattia era progredita e Biagini aveva perfettamente ragione: ora dovevo preoccuparmi di rimanere viva, non di come vivere, quello sarebbe stato un problema da affrontare dopo. Se ci sarebbe stato un dopo. Mi vennero in mente alcune sue parole pronunciate nel corso delle prime visite, quel “noi la malattia gliela cronicizziamo” a cui lì per lì avevo dato poco peso. Mi resi conto che quelle parole erano un’ancora di salvezza, a cui mi aggrappai con tutta la mia energia e capacità di sperare. Sentivo con ogni cellula del mio corpo che volevo vivere. E che volevo vivere anche zoppicando. Non si trattò di una forma di rassegnazione. Iniziai a pensare all’invalidità non più come a una sottrazione della capacità di godere della vita, ma come alla mia opportunità per continuare a vivere. Non è stato facile intraprendere questo percorso, ma è stato il mio percorso di rinascita.

E' la notte prima dell’operazione nel reparto di Biagini. Nel silenzio mi alzo dal letto e, sfidandogli ordini del primario, cammino piano piano per la stanza senza stampelle, senza tutore, a piedi nudi. Voglio imprimermi nella mente e nel corpo la memoria dei miei passi del prima, di quando camminavo sicura e inconsapevole. Poi, mi infilo di nuovo sotto le lenzuola e dico a me stessa: ”Sei stata una pazza, ora basta, volta pagina, domani inizia la tua nuova vita”.

L’operazione andò bene. I chirurghi avevano dovuto tagliare meno del previsto, comunque un pezzo del mio quadricipite della gamba destra se n’era andato insieme all’osso malato. Mi avevano cementato un bel bestione di protesi al posto del femore, lasciandomi un’artistica cicatrice a forma di esse sul lato esterno della gamba che, partendo dal fianco, segna tutta la coscia. Mi aspettavano trenta giorni di immobilità, poi la riabilitazione e poi… in realtà non sapevo cosa mi aspettava una volta uscita dall’immobilità.

Me ne sto nel letto dell’ospedale a rimuginare sui miei problemi, fasciata dal tutore, senza potermi girare, completamente dipendente dagli altri, quando nella mia stanza entra Raggio di Sole. Si presenta come volontaria per l’assistenza ai pazienti del reparto. Confare molto cordiale, mi chiede se voglio un giornale e poi iniziamo a imbastire una chiacchierata. Io, in realtà, sono fortemente incuriosita proprio da lei. Alta e snella, lunghi capelli neri, un bel volto dall’espressione aperta e simpatica: Monica, questo il suo nome, zoppica vistosamente. E sorride, con l’espressione serena del volto, con la bocca carnosa, con lo scintillio degli occhi scuri. Sorride con un sorriso sincero. Alla sua seconda visita non resisto e, senza giri di parole, le chiedo il motivo della sua evidente zoppia. Lei, con altrettanta sincerità, mi racconta la sua storia. Così scopro che, a causa di un sarcoma, a 28 anni le avevano amputato una gamba e che, nonostante il cancro si fosse poi ripresentato più volte, si era sposata e aveva avuto un figlio. Più la conosco, più mi rendo conto che la sua è una vita ricca di affetti, soddisfazioni, solidarietà, speranze. Ricca di movimento lungo percorsi che anche io avrei potuto scoprire. Sono emozionata. Con Monica era penetrato in quella anonima stanza di ospedale un raggio di sole che illuminava il mondo sotto un’angolatura diversa, mettendo in luce sfumature che non potevo vedere quando ero una persona cosiddetta normale e percorrevo la vita sicura della mia falcata.

Dopo due settimane in ospedale, ho passato un mese in clinica di riabilitazione. Quando, con l’aiuto del fisioterapista, mi sono alzata dal letto la prima volta, la gamba mi sembrava letteralmente fatta di gelatina. Non avevo alcun controllo su di essa, sentivo a malapena il tocco del piede sul pavimento. Ma io ero entusiasta lo stesso della novità e inviai un sms a tutti i miei amici in cui vi era scritto. “Oggi ho conquistato la Luna!” Da lì in poi ogni progresso fu una conquista che mi rendeva felice. Grazie alla ginnastica passiva inizio finalmente a sentire la gamba. Poi sulla carrozzina scorrazzo per i corridoi della clinica. In palestra ce la metto tutta nel fare gli esercizi. Con il girello compio i primi passi, tremolanti e insicuri, ma io mi sento al settimo cielo. Il passaggio alle due stampelle è una svolta storica verso l’autonomia. Quando mi dimettono cammino con una sola stampella. Sulla cartella clinica c’è scritto “Recupero eccellente” e io sono di nuovo orgogliosa delle mie gambe.

Per la piccola metastasi sull’osso iliaco ho affrontato dodici cicli di radioterapia mentre, appena accertata la natura del tumore, su indicazione dell’oncologo, ho iniziato una terapia sistemica con un farmaco mirato a inibire la produzione di estrogeni, verso cui il mio cancro si era rivelato sensibile. Una diagnosi di cancro è una notizia che mette in discussione la vita, le terapie sono aggressive, spesso invalidanti, quasi insopportabili. Quando ti dicono che hai metastasi, hai la sensazione che ti stiano comunicando la data della tua morte. Per affrontare questo male bisogna tirar fuori da se stesso ogni briciolo di volontà di sopravvivenza, ogni particella di energia,ogni capacità di speranza. E’ una battaglia che non si può intraprendere da soli, l’impresa è corale e ognuno deve fare la propria parte. La competenza dei medici è strategica, senza questa non si va lontano. La professionalità e l’umanità degli infermieri sono indispensabili per creare un ambiente terapeutico accogliente e sicuro. L’affetto e il sostegno delle persone care sono fondamentali per piangere, sorridere e rinascere insieme. La testimonianza di chi ci è passato è insostituibile come elemento di incoraggiamento e conforto. Ma il vero protagonista, l’eroe, sei tu, il malato, anche se non te accorgi subito. Anche se le risorse per reagire sgorgano da dentro te stesso senza che tu sapessi di averle. Ma da questa battaglia nasce un’altra persona.

Oggi, a oltre due anni e mezzo dall’operazione, cammino senza bastone e senza zoppicare, ma un osservatore attento coglie una certa discontinuità nel mio andamento. Con cocciutaggine continuo a fare la fisioterapia, che non ho mai smesso. Non posso correre, arrampicarmi, sciare, almeno per ora. Salire e scendere scale mi è ancora difficile senza appoggiarmi, né posso camminare a lungo perché mi affatico troppo, zoppico e la gamba mi fa male. Ma non ho nostalgie né rimpianti del piacere che traevo dalla capacità di muovermi come volevo. Lo spostamento, la velocità e la possibilità di raggiungere mete distanti, magari in fretta, non è l’unico modo per sentirsi liberi. La verità è che tutto ciò è sceso nella scala di valori della mia nuova vita, che ancora sono impegnata a costruire. Può apparire strano, ma proprio l’invalidità si sta rivelando l’occasione per scoprire nuovi significati di movimento. Il ritmo del respiro, per esempio, un movimento leggero dentro di noi che diamo per scontato, se non ci si ferma ad ascoltarlo è impercettibile.

Il contatto ravvicinato con il cancro mi ha lasciato un senso di distacco dalla vita, che non significa mancanza di apprezzamento, anzi. Significa che sono consapevole della sua precarietà per tutti gli esseri viventi. E’ per questo che la vita è preziosa. Oggi mi è difficile anche schiacciare una formica fastidiosa e sento il bisogno di imparare ad ascoltare il ritmo del mio respiro, del respiro della vita.

Avere la coscienza di essere viva istante dopo istante: ecco la mia nuova meta.

Anna

Lo spostamento, la velocità e la possibilità di raggiungere mete distanti, magari in fretta, non è l’unico modo per sentirsi liberi